La voce delle case abbandonate

Sono dieci gli esercizi necessari ad avvicinare le case abbandonate, proprio come si fa per accostarsi agli animali selvatici. Ognuno di questi esercizi – splendidamente descritti da Mario Ferraguti nel suo “La voce delle case abbandonate – Piccolo alfabeto del silenzio” (EdicicloEditore) – ha a che fare con il silenzio e con la predisposizione che occorre per ascoltare il silenzio, scoprire con quale voce esso ci parla e ci mostra le cose. Nelle case abbandonate c’è un tempo proprio, che è diverso dal tempo normale, perché è un tempo passato assoluto che, tuttavia, proietta nel futuro: le case abbandonate, infatti, vivono, respirano, a volte si muovono, persino. Ma soprattutto aspettano, aspettano di ritornare terra, sassi, di ritornare tempo e memoria. Ci parlano, le case abbandonate: lo fanno attraverso il vento, attraverso i loro nuovi abitanti (le piante, i rampicanti, gli insetti, i ragni) e attraverso le cose lasciate lì, un cappello, un tavolo, le sedie, una madonnina, un armadio, un vestito, qualche lettera, le carte da gioco, l’immagine di santi che non sanno nemmeno più cosa dover proteggere. Si trovano case abbandonate in montagna, case abbandonate di mare, case abbandonate nella bassa, case abbandonate che avevano una funzione specifica – le case cantoniere, quelle a ridosso dei caselli delle ferrovie, le case coloniche dei contadini – oppure case abbandonate al limitare o nel bezzo del bosco, come nelle fiabe, che non si capisce bene perché fossero state costruite proprio lì. E che, comunque, al bosco stesso anelano solamente di tornare.

È un libro di meditazione, quello scritto da Ferraguti, un’introduzione non tanto al silenzio, quanto all’interiorità delle cose, alla pazienza, alla dimensione di un tempo che non è necessariamente il tempo dell’uomo, alla verità dei nostri percorsi fallibili, a ciò che ne resta, al ritorno del tutto alla propria dimensione più reale: sassi, foglie, fiori, vento, terra, mare, custodi ultimi delle nostre vicende. E del nostro amore.