Il senso di colpa per un romanzo irrisolto

Alla morte del padre, Larry, cresciuto in una famiglia di ebrei ortodossi, in qualità di primogenito è chiamato alla recita del Kaddish del lutto, una preghiera da svolgere ogni giorno per i successivi undici mesi, per la salvezza dell’anima del defunto. Impegno che Larry, non certo un esempio di devozione, assume delegandolo però a “kaddish.com”, un sito che è una specie di Tinder per ebrei osservanti: pagando una cifra si viene abbinati ad un profilo giusto, che pregherà al tuo posto. Vent’anni dopo ritroviamo Larry che, riconvertitosi all’ebraismo ultraosservante e riacquisito il proprio nome ebraico di Shuli, insegna in una scuola religiosa di Brooklyn. Ma il tormento per le sue azioni passate lo conduce a Gerusalemme, sulle tracce di Chemi, il ragazzo che si era preso in carico il Kaddish per l’anima di suo padre.

Se uno scrive “Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank” e “Il Ministero dei casi speciali”, per me – detto fatto – diventa “uno dei miei autori preferiti”. E pazienza se Nathan Englander dà il meglio di sé nella forma racconto (“Per alleviare insopportabili impulsi”, provare per credere) e se, invece, già in passato c’è stata un po’ di delusione per le prove più “lunghe” (tipo “Una cena al centro delle terra”). Pazienza perché il suo stile perfetto, il suo humour tendente a Philip Roth senza mai travalicare, però, quella sottile linea di demarcazione tra disincanto e cinismo, quella sua ambizione nel voler trattare anche temi religiosi con rispetto ma senza devozionismo, secondo me ne fanno uno dei più importanti scrittori della sua generazione.

Quindi, che delusione questo suo ultimo “Kaddish.com”! Un libro che prende il via con uno spunto super, ma dove l’empatia per il protagonista Larry svanisce quando lo stesso si trasforma nel noiosissimo Shuli. Nulla ci viene detto sul percorso che porta a questo cambiamento. Semplicemente, a un certo punto finisce la Prima Parte e inizia la Seconda e il personaggio è totalmente cambiato. Secondo me, decisamente in peggio. Inoltre, nonostante la traduzione di Silvia Pareschi – che è una garanzia – il testo è infarcito di terminologia ebraica, che rimanda a sette pagine di glossario finale, senza che questa abbia una reale necessità narrativa. La trama, poi, si svolge in modo banale e alla fine trova una soluzione ancor più “desolante”.

A me sembra che questo libro potesse essere al più un abbozzo di romanzo, il cui tema portante – qual è il nostro rapporto con il passato e con il senso di colpa che tutti, prima o poi proviamo, anche senza essere ebrei – è risolto in pagine frettolose e distratte.
Mi “manca” Nathan Englander. E mi manca ancora di più dopo quest’ultimo Nathan Englander.