In un mondo senza più besë

Nel tardo pomeriggio Ujkan ricevette una telefonata. Era Bashkim, finalmente. Gli disse che era andato tutto a puttane”.

Rizzoli scrive “Un romanzo balcanico” come sottotitolo di “Il mare è rotondo”, primo romanzo di Elvis Malaj – che avevamo già conosciuto per la raccolta di racconti “Dal tuo terrazzo si vede casa mia” – scrittore nato in Albania, in Italia dall’età di quindici anni (la metà dei suoi anni). Diciamo che la scelta del sottitolo è commercialmente furbetta, perché vuole richiamare subito certe atmosfere kusturiciane da “Gatto nero gatto bianco”. Il che potrebbe anche essere, ma se proprio-proprio dovessimo segnalare per quest’opera un legame con il cinema, allora converrebbe più immaginarsi di trovarsi di fronte ad un Drugo del “Grande Lebovski”, però in Albania.

Il romanzo ha come fulcro protagonista Ujkan, il cui obiettivo primario sarebbe raggiungere l’Italia, anche se va detto che anni prima, durante una traversata in gommone, giunto alle coste pugliesi si era inopinatamente rifiutato di tuffarsi in mare, attirandosi le ire – eufemismo – dello scafista. Intorno a Ujkan, si muove un gruppo di personaggi variegati e – attenzione – ognuno di loro saprà entrarvi nel cuore, in virtù dei propri difetti: a partire da Sulejman, scrittore in bolletta, angheriato dalla moglie Vera e a caccia del business in grado di fargli svoltare la vita, per finire a Irena, la ragazza con la quale Ujkan intreccia una tormentata (altro eufemismo) storia d’amore. Poi ci sono gli zingari e il commercio di ferro, l’Albania rurale e i politici corrotti, vecchi camion d’epoca comunista e sì, un po’ tutte quelle cose cui si pensa tramite l’aggettivo “balcanico”, stereotipi e raki compresi. Tuttavia, la protagonista principale del romanzo non è un personaggio, ma un concetto, il che è singolare per la narrativa cui siamo abituati in genere: la besë, ovvero – come viene definita nel mini glossario che conclude il romanzo – “un precetto culturale della tradizione albanese, indicante grossomodo l’onore individuale, più spesso identificato con il mantenere la parola data”. In questo senso, “Il mare è rotondo” diventa un romanzo di formazione, dato che tutti i personaggi, indipendentemente dalla loro età, sono alla ricerca – una ricerca di volta in volta disperata, buffa, comica, irrisolta, drammatica – del proprio posto nel mondo, in un contesto dove aggrapparsi all’esperienza e ai racconti dei nonni, per esempio, non non si può perché la besë non signfica più granché. Così, molte cose andranno “a puttane” nelle storie di Ujkan, eppure impareremo che “non è ancora finita”, come non lo è mai quando si ha poco da perdere e sogni incasinati, ma comunque “limpidi”.

“la Repubblica” scrive che “Malaj smonta luoghi comuni e scontri di civiltà, dimostrando che eccetera eccetera”: a me non sembra che Malaj faccia tutte queste cose. Non mi sembra che sia nemmeno il suo intento. Secondo me, invece, Malaj ha avuto il coraggio e il dono dell’umiltà – esatto – di costruire un mondo letterario, credibile e spontaneo, partendo da certe cose semplici. Che sembra facile, ma a pensarci non lo fa quasi più nessuno, presi come sono tutti dal voler per forza di cose dire la propria sui “grandi temi”.

P.S
Ah, si ride anche molto, tra le pagine di questo romanzo (la scena del ritorno sul palco del cantautore Shpat Agolli, per esempio, è esilarante). Il che non fa affatto male.