L’ora d’arte

A cosa serve l’arte? Tomaso Montanari traccia una sintetica risposta a questa domanda trattando della Basilica di San Miniato e dice, sostanzialmente: in un epoca di forte “turbamento collettivo” (che è un modo suo per dire crisi), a volte sentiamo che le parole non bastano più e che c’è la necessità di un linguaggio “più denso, più sintetico, più forte e insieme più alto”. L’arte, appunto.
Pur non essendo del tutto d’accordo rispetto a certe sue valutazioni tranchant e vagamente snob – che probabilmente rappresentano anche un tratto distintivo del modo di fare critica d’arte oggi, in Italia – circa la valutazione dell’eterna questione: “Come si fa a valorizzare l’enorme patrimonio artistico di cui noi italiani siamo – spesso indegnamente – eredi?”, è rilevante l’approdo cui giunge l’autore, seguendo in questo uno dei suoi maestri, Roberto Longhi: “L’arte di per sé muta e indifesa, non può proteggersi che con la fama, e la fama è la critica sempre desta” e, dunque, se smettessimo di raccontare l’arte con le parole, quelle stesse opere tanto amate uscirebbero di scena.
L’ora d’arte” (Einaudi) – che raccoglie cento tra i testi dell’omonima rubrica che Montanari tiene sul Venerdì di Repubblica – è così un libro estremamente interessante, perché sintetizza ciò che le parole possono aggiungere ad un capolavoro artistico (e lo è soprattutto per chi, come me, si ritiene piuttosto ignorante in materia).
Se per caso ve lo chiedeste, no, non si tratta di un best of di pezzi già pubblicati altrove, ma di un vero e proprio percorso artistico, in sé inedito, che si svolge al 90% in Italia (poteva essere diversamente?) e che pone l’attenzione non sui grandi e celebrati capolavori della nostra storia dell’arte, ma spesso su opere considerate minori, meno conosciute, non disdegnando di soffermarsi sui luoghi, sulle architetture e sui paesaggi urbani che le ospitano o che ne sono essi stessi parte.
Alla fine del viaggio – come alla fine di ogni libro, in particolare quando non ci troviamo di fronte alla narrativa – è utile farsi una domanda: “Ho imparato qualcosa, da tutto questo tempo?” (non nascondiamocelo: leggere non è affatto un’attività semplice e, molto spesso, nemmeno così appagante o divertente, per quanto a volte ci si sforzi per far credere il contrario). Ecco, nel caso del libro di Montanari la risposta è “certamente sì” e non è una cosa da poco, in effetti.
Rimane da affrontare il tema dell’equilibrio necessario tra una professionalità non indulgente della critica d’arte e la necessità di una divulgazione popolare, che Montanari risolve sul versante di una propria assunzione di responsabilità: i dati identificativi delle opere ci sono tutti (anche se raccolti alla fine, e questo è un punto di demerito all’edizione), così come preciso è il racconto del contesto in cui sono immerse. Da lì nasce poi il racconto, che sostanzialmente è voglia di condivisione, quindi con continui riferimenti all’oggi, alla quotidianità, a ciò che maggiormente può avvicinare i grandi artisti del passato ai sentimenti, alle passioni, alle tribolazioni dell’uomo di oggi. D’altra parte, lo stesso Omero non era altro che un cantastorie.