molle(skine): diario morbido

Nel tempo del virus

Il virus è arrivato, all’improvviso. Seguendo le rotte delle innumerevoli e contemporanee vie della seta, ci ha consegnato il dispaccio della nostra solitudine, riflettendosi – sotto i portici, nelle piazze, a fianco dei monumenti, quegli stessi che da sempre circoscrivono il nostro orizzonte locale – nel sentimento primario del vivere postmoderno: la paura.

Che cos’è il virus? È un essere piccolissimo, invisibile, silenzioso, incoerente, mutevole, a suo modo democratico. Esiste. C’è. Fa male. Si nutre di questa sua stessa forza, genera ansia tramite la sua struttura ribonucleica, rende inermi di fronte al niente. E la solitudine, in altre circostanze desiderata, a volte persino esibita come uno status symbol, quella solitudine privilegio dei pochi, diventa improvvisamente a disposizione dei molti e colma la misura della nostra esistenza.

In queste mattine d’inizio marzo a volte piove. In altre, invece, l’aria silenziosa è impregnata di una luce giallastra, che la taglia in obliquo, così come obliquo è il nostro sentimento, che scivola giù verso un luogo sconosciuto, qualcosa cui abbiamo avuto a che fare solo nei games o in certi film. Eravamo nel tempo del carnevale e ci siamo ritrovati in quello delle ceneri prima del previsto e tutto in un colpo, in una quaresima che si scontra con la primavera e con l’aprile, l’aprile che è ancora di là da venire. Nella città s’incrociano sguardi che galleggiano incerti sull’acciottolato del corso, passi frettolosi sotto le arcate dei portici. Nessun abbraccio, i baci vietati, i gesti consueti che diventano beni preziosi, da custodire. E molto, forse tutto, resta lì, sospeso in un’ora che sembra quella giusta – e negli altri giorni, nei giorni “normali”, lo sarebbe anche, il lavoro, la scuola, gli uffici, le attività – ma che invece giusta non è, non più, non adesso.
Il fuso orario di Pechino non era mai stato il nostro, la Cina era vicina dicevano taluni, ma non così, così è troppo, così bisogna rimettere le distanze tra noi, un metro, due metri, porte chiuse, porte aperte.
Soluzioni idroalcoliche.

La solitudine la si misura in cento passi, o poco più, quelli che vanno dai parcheggi semideserti del centro fino alla chiesa con le porte serrate, perché anche il trascendente è in attesa di capire se e quando e come. 

Nel tempo del virus tutto diventa rarefatto eppure nitidissimo, e dove non c’è niente da capire, si capisce lo stesso benissimo o si fa credere che sia così e intanto un croissant alla marmellata, un cappuccio, sì, grazie, hai visto che cera che ha quello là, eh già, prima tossiva ma nella sua manica e comunque le tazzine del caffè vanno in lavastoviglie e speriamo le mettano a temperatura alta, che non risparmino anche su quello, non adesso. 
La piega del gomito è il milite ignoto, il fante che difende la Patria.

Gli scaffali della Coop si sono svuotati e poi si sono nuovamente riempiti, ma la corsia giusta è quella dei surgelati, perché i surgelati vanno sempre bene, sono adatti ad una vita che abbiamo momentaneamente impanato. Basterebbe surgelare anche il nostro amore, anche se purtroppo non c’è riuscito ancora nessuno, ma basterebbe surgelarlo per tirarlo fuori al momento giusto, quando ci servirà, anche se invece, invece niente, l’amore se ne va, è come acqua in piena, che senza una diga quando piove se ne va al mare e non la si recupera più, e ciò che resta è tuttalpiù un amore di falda, che l’amore di falda vale qualcosa in meno, non è così pregiato, forse perché è sporco di terra. Eppure, non disprezziamolo, non buttiamolo via, l’amore, tutto l’amore che c’è. Perché ne avremo bisogno, quando sarà il momento lo cercheremo e chi lo avrà sarà ricchissimo perché sarà felice e tutti lo invidieranno e diranno guarda, guarda quello là, non aveva niente, pensavamo che non avesse niente, e invece era pieno d’amore ed è il più ricco di tutti noi, che abbiamo cose che non servono a niente. 

Qualcuno gira con una mascherina, anche se, appunto, il carnevale è finito. Però le mascherine, anche loro, sono classiste e non sono mica tutte uguali, ce ne sono di tanti tipi, e quelle utili, dispiace, ma quelle utili sono tutte esaurite, è andata così, ormai è troppo tardi, si proverà a recuperare, in qualche modo, come il campionato (e intanto, c’è sempre qualcuno che ne sa di più e il “Bar dello sport” è già in fase di ristrutturazione e adesso si chiama “Bar della virologia applicata”).

Noi osserviamo la realtà dal bordo del cratere, che è dove ci si sente ospiti non troppo desiderati, ma è come sbirciare in una casa d’altri da una finestra lasciata aperta.
La Lombardia, il Veneto, la zona rossa, la zona gialla.
Sarebbe bello salire in montagna e da lì osservare solo la bellezza. 
Che c’è.

“Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.”
(A. Camus, “La Peste”)

photo credit: Ivano Di Maria