molle(skine): diario morbido

Quella notte a Roma che a Zavattini venne in mente che qualcuno potesse fare un film sui “Violini di Santa Vittoria”

A proposito di “Denominazione d’origine popolare. La vera o presunta storia dei Violini di Santa Vittoria”. Un film di Nico Guidetti.

Ci sono certe notti di ottobre, a Roma, che sembra primavera. E a volte persino estate. La chiamano “ottobrata”. In quelle notti lì, se non si riesce a prendere sonno, vale la pena mollare il letto scomodo e farsi un giro a Trastevere, che è un posto dove ci sono ancora i romani, quelli che di notte non vanno a dormire anche se il giorno dopo devono tirar su la serranda. Perché una notte, pure una notte qualunque, non merita di essere sprecata dormendo. E poi ci sono i romani che rimangono a strimpellare qualcosa all’amor perduto, all’amore atteso, a quella libertà che solo la notte sa regalare. Fanno gli stornelli. E però adesso ne fanno sempre meno, che gli stornelli vanno ad esaurirsi, così come le osterie, che chiudono e non riapriranno il giorno seguente.
Il loro tempo sta per finire.
Alcuni lo sanno.
Altri, invece, fanno finta di non ricordarlo e mettono tutto dentro quelle ultime, ruvide, rime che nascono dal cuore e dalla pancia, prima ancora che dalla testa.
E così fa, quella notte, ©Silvio Durante/Lapresse Archivio storico Torino 9-12-1955 Cesare Zavattini nella foto: al Teatro Carignano lo sceneggiatore e regista Cesare Zavattini ha tenuto una conferenza nell'ambito dei Venerdì Letterari NEG- 84536Zavattini. Esce e va a fare due passi a Trastevere, in una sera di ottobre, che è una sera d’ottobrata, mentre il fiume scorre limaccioso e mite, accarezzando il suo popolo. Che è quello che dorme sotto i ponti. Ottobre è iniziato da pochi giorni, ma l’aria è placida, così ferma come se dovesse accadere qualcosa da un momento all’altro e quel 1989 potesse essere davvero qualcosa oltre l’ultimo del decennio. Chissà.
Gli viene nostalgia, a Zavattini, certe sere. Sarà che è diventato vecchio. Sarà per quello. Ma passeggiando per le vie deserte di Trastevere, sarà il fiume, sarà un certo silenzio come a Roma non si sente quasi mai, sarà un po’ l’insieme di tutte queste cose, ma insomma, quella sera a Zavattini vien quasi voglia di tornare a casa. A casa sua. Là dove il fiume è Il Fiume. E dove ottobre è un mese serio, che si presenta con certe nebbie all’improvviso, tmpo ideale per ambientare cento storie fantastiche di animali mitici, cose che fanno paura, più che altro perché nessuno le ha mai viste davvero, se non nel fondo sporco di un bicchiere di vino.
Ecco, esatto. Ci vorrebbe un bicchiere di vino. Ma non il Frascati. E neanche il Castelli Romani. Quelli sono bianchi. O rossi, ma non del rosso giusto. Zavattini pensa, Zavattini ha voglia – una voglia improvvisa e che di primo passo, un passo incerto e indeciso (non sa spiegarsi) – di un rosso scuro, di un rosso che lasci il bicchiere sporco. Per dirla tutta, Zavattini avrebbe voglia di “prenderla grossa”. Ma alla sua età, e nella sua posizione, no, meglio lasciar perdere, meglio accontentarsi di un bicchiere semplice.
Così, camminando senza meta, trova un’osteria ancora aperta. O forse “già” aperta, chissà. Ordina un bicchiere della casa e gli portano un Cerveteri rosso. Non è la stessa cosa. Decide che va bene lo stesso.
La strada è deserta, se non per loro due. Per quanto ne sa Zavattini, in quel momento potrebbero essere in due in tutta Roma. Pure il Papa starà dormendo, a quell’ora.
Il ragazzo ha una chitarra, malandata, almeno a vederla da lì, da dove è seduto Zavattini. Certo, non è più malandata di quanto non lo sia lui stesso. Non ha raccolto molto in quella sera, che si sta rivelando avara di di idee e bagnata di vino scarso.
“Suona qualcosa, avanti”, gli dice Zavattini. Vorrebbe lanciargli una moneta, ma gli sembra un gesto arrogante.
Il ragazzo si avvicina.
“Sto andando via”, risponde guardando per terra. Tiene la chitarra sulla spalla. Sulla chitarra c’è un adesivo, e sull’adesivo c’è scritto “This machine kills fascists”.
“E quello?”, chiede Zavattini.
“Quello? Cosa?”
“L’adesivo”.
Woody Guthrie“Ah, già… Woody. Woody Guthrie”.
“E tu ci credi?”
“A cosa?”
“Che quella macchina uccida i fascisti”.
Was a high wall there that tried to stop me…”, mormora il ragazzo, pizzicando le corde.
A sign was painted said private property but on the back side it didn’t say nothing.
“La conosci?”
“La conosco”, dice Zavattini. Sorride. Sorride al fatto che il ragazzo pensi che lui sia troppo vecchio per conoscere certe cose. Come se Woody Guthrie fosse “giovane”.
“Mettiti lì, che ti racconto una cosa”.
“A quest’ora?”
“Hai di meglio da fare?”
Ora, ci sarebbero state mille storie che Zavattini avrebbe potuto raccontare a quel ragazzino. Quella del temibile foionco, per esempio. Oppure quell’altra, terribile, del magalasso. Oppure, la sua preferita, quella del “pittore pazzo” Ligabue. Invece a Zavattini viene in mente la leggenda dei violinisti braccianti di Santa Vittoria.

Per andare a Santa Vittoria dipende da dove si parte. Santa Vittoria non è come Roma, che tutte le strade portano lì. Per esempio ce n’è una che costeggia il Grande Fiume e che se la si percorre verso ovest porta a Busseto. Busseto, naturalmente, è il paese del Maestro. Quella che va da Santa Vittoria a Busseto è una via di note e di privazioni, di pentagrammi e di riscatto, di grande storia e di piccole storie. E del “viceversa” di ognuna di queste definizioni.Giuseppe Verdi
Bene, “copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è molto meglio”, ha scritto una volta il Maestro. Così, i braccianti di Santa Vittoria l’hanno preso sul serio. D’altra parte, che altro è un “bracciante” se non qualcuno che utilizza le proprie braccia? È proprio l’utilizzo delle braccia – e di quelle loro straordinarie propaggini che sono le mani – che rende l’uomo quel meraviglioso animale creativo che è. E se le braccia sono condannate a coltivare miseria e ad arricchire solamente il padrone per le quali sono state messe forzatamente al lavoro a basso salario, spesso senza nemmeno riuscire a portare a casa il pane per la propria famiglia, allora, davvero, l’emancipazione non passa più attraverso il lavoro. Meglio, non passa più attraverso “quel” lavoro. Quindi serve inventarsene un altro, inventare un “vero” migliore, inventare una musica nuova. La cosa straordinaria è che le stesse braccia che con forza sanno governare un vomero, possiedono per loro natura la dolcezza per far scorrere un archetto sulle quattro magiche corde di un violino. Esattamente in quello spazio, in uno spazio di pochi millimetri capace di armonizzare un suono, e in un tempo, un tempo preciso e suddiviso a seconda della mazurka, del valzer, della polka e dell’occasione capace di rendere addirittura necessaria l’esecuzione pubblica di una di queste straordinarie invenzioni, ecco, proprio lì, proprio in quell’attimo, il bracciante di Santa Vittoria ha trovato la possibilità di alzare lo sguardo da terra per guardare dritto negli occhi il “signor padrone” e dirgli che in quattro corde e sette note si nasconde l’infinita varietà della dignità. Grazie all’invenzione di una musica nuova si traccia così la strada che porta dell’umiliazione al riscatto. E non attraverso la rivolta, ma con il rock’n’roll. Che ovviamente non è solo quello in quattro quarti americano, ma il suono ternario o binario delle infinite sembianze che l’acustica può prendere quando diventa Musica. L’importante, in questo caso, è che sia “popolare”, nel preciso senso del termine. E loro l’hanno fatta, la rivoluzione. A Santa Vittoria. Con i violini.

This machine kills fascists”, mormora Zavattini alla fine. “Capisci adesso?”.
Poi stira cinquemila lire, tirandole fuori spiegazzate dalla tasca dei pantaloni, e le mette in mano al ragazzo.
Mentre torna verso casa, le strade sono ancora più deserte di prima. All’est si vedono già i primi bagliori del nuovo giorno. È quell’attimo sospeso tra notte e giorno, tra realtà e finzione, dove tutte le storie possono sembrare vere, anche quelle che lo sono realmente, ma che uno non lo direbbe. Zavattini allarga il braccio destro e appoggia quell’altro intorno alla vita. Volteggia da solo, per qualche passo, al ritmo di una musica lontana, che solo lui ha in testa. Pensa che in tutta Roma, in tutta la grandiosa, maestosa, imperiale Roma, in quel momento sia concesso solo a lui di intuire la forza meravigliosa di un ballo liscio. Gli cade il basco nero a terra e meno male che riesce a fermarlo prima che quello, dispettoso, scivoli giù nel fiume. Mentre lo raccoglie, dopo essersi acceso l’ultimo sigaro che gli è rimasto in tasca, pensa che sarebbe bello che qualcuno raccontasse quella storia, una storia che, a conti fatti e per un sacco di motivi, non avrebbe potuto nascere in nessun altro posto se non là, a Santa Vittoria, “dalle sue parti”.
Magari qualcuno, prima o poi, potrebbe anche farci un film. Perché no?
Ottobre a Roma è un mese dolce e profuma di libertà. La musica inventata dai braccianti-violinisti di Santa Vittoria ne sarebbe la colonna sonora perfetta.

Denominazione d’origine popolare. La vera o presunta storia dei Violini di Santa Vittoria”. Un film di Nico Guidetti.
Prodotto da POPCult – MediaVision – I Violini di Santa Vittoria
Proiezioni in anteprima:
mercoledì 2 dicembre, ore 21, Reggio Emilia, Cinema Rosebud
lunedì 7 dicembre, ore 20, Santa Vittoria (con concerto dei “Violini”).
Denominazione d’origine popolare” è il nuovo lavoro dei “Violini di Santa Vittoria” e lo si può acquistare online.

Note
Cesare Zavattini muore a Roma il 31 ottobre 1989, ancora in attività.
I versi di Woody Guthrie sono tratti dalla sua canzone più celebre, “This land is your land”.