Bela Lugosi

Il 5 ottobre 1927, sul palco del Fulton Theatre di Broadway, un semisconosciuto attore di origine ungherese, Bela Lugosi (nato Béla Blasko, a Lugos, nel 1882), entra per la prima volta nei panni del personaggio che finirà per vampirizzare – nel vero senso del termine – la sua esistenza. Siamo alla prima del “Dracula”, l’opera teatrale tratta dal romanzo di Bram Stoker, che già da tre anni sta spopolando nei teatri londinesi. Nasce da questo spettacolo, quattro anni più tardi, il film diretto da Tod Browning, che definisce l’iconografia “classica” del vampiro transilvano, con i lineamenti di Bela Lugosi, il frack, il mantello nero foderato di rosso e i capelli lucidi di brillantina (un’immagine che troverà un degno aggiornamento solo trent’anni dopo, grazie a Chrisopher Lee). 
Nel suo “Bela Lugosi”, però, Edgardo Franzosini – uno scrittore dotato del raro talento di dire tanto con poco e che più volte ha mostrato questa sua abilità nel tratteggiare minibio di personaggi di secondo o terzo piano di varie discipline – non si sofferma più di tanto sull’incedere biografico della vita dell’attore ungherese. Cioè, i punti importanti ci sono tutti, compreso il racconto del carteggio epistolare tenuto con la vedova Stoker, grazie al quale Lugosi, che pure conosceva poco e male la lingua inglese, riuscì a far ottenere alla Universal uno sconto di 160mila dollari sui diritti d’autore. Il delizioso libro di Franzosini, in realtà, si concentra (e quasi filosofeggia) sul destino di (quasi) ogni attore attore che, appunto, è quello di essere vampirizzato dai propri personaggi e, insieme, essere vampirizzati a propria volta dalla cinepresa. E un darsi tutto, senza risparmiarsi, un sacrificio che spesso lo spettatore nemmeno coglie, fino all’estremo, fino alle ultime parole, come quelle pronunciate da Lugosi sul letto di morte: “Io sono il conte Dracula, io sono il re dei vampiri, io sono immortale”.
Follia? Delirio? O, forse, razionale presa di coscienza del proprio ruolo nel mondo?
È un libro breve, quello di Franzosini, eppure capace di agitare – come pipistrelli – una molteplicità di riflessioni rispetto al metagioco e alla metafinzione, che sono poi l’arte del cinema e dell’intepretazione.

Anche nel caso di Bela Lugosi il personaggio, del resto già vampiro per conto proprio, è disceso autoritario e tirannico, lo ha abitato, lo ha posseduto, si è nutrito di lui. Tale penosissima circostanza, al cui verificarsi non sono estranee, come si è visto, le mediocri capacità interpretative di Lugosi, ha a sua volta determinato un ulteriore peggioramento nella qualità della sua recitazione, in un interminabile sovrapporsi di influenze negative reciproche. La motivazione interna, profonda di uno stile tanto magniloquente ed enfatico risiede infatti, a mio parere, in un solo dato oggettivo: quando recita la parte del vampiro, Bela recita ormai la parte di se stesso.