molle(skine): diario morbido

Qualcuno che ci riporta a casa*

*una storia vera **

Tic-tic-tic.
Qualcosa sta ticchettando sul vetro della finestra.
Qualcuno là fuori sta picchettando”, dice Hans. 
Di nuovo. Hans sbaglia ancora. Sembra che quel bambino non sappia far altro che sbagliarsi. Ogni volta che apre bocca, un errore. E poi, certo, ci sarebbe da vederlo, mentre parla. Probabilmente si starà stropicciando le dita, come fa di solito. Sembra uno che abbia sempre freddo, anche in piena estate. Ma questo, Albert, adesso non può saperlo. Perché c’è troppo buio lì, dove sono. Ma lui detesta le imprecisioni. Quel poco che ha imparato nella sua breve vita è tutto racchiuso nei lavori che compie in campagna, dove bisogna essere precisi per ottenere i risultati e dove le cose bisogna chiamarle con il loro nome preciso.
Ticchettano”, dice Albert.
“Cosa?”, sussurra Hans.
“Il rumore, sul vetro. Si dice ticchettare, non picchettare. Non senti?”, tenta di spiegare, con pazienza.
“E cosa dovrei sentire?”
“Fa tic-tic-tic… ticchetta. Non fa pic-pic-pic, quindi no, non picchetta. È abbastanza semplice da capire, no?”
“Bè, ma non significa niente, questo”, alza la voce Hans.
“Insomma, volete piantarla, voi due?”, interviene Maria. Maria ha la stessa età di Hans, un paio di anni in meno di Albert. Sua madre è morta la scorsa primavera. Da allora, lei si occupa di tutto, in casa sua. Ha smesso anche di andare a scuola.
Dall’esterno non si sente più nulla. Però c’è un bambino che smoccola, da qualche parte nella stanza. Dev’essere uno dei piccoli, di quelli di tre-quattro anni che hanno mandato con loro, questa volta.

L’allarme era suonato a metà mattina e Albert, all’inizio, non ci aveva fatto nemmeno caso. Stava trascinando nella stalla la mucca – la sola mucca che fosse rimasta in famiglia – che sembrava non volesse saperne di muoversi dal punto in cui aveva deciso di piantare le zampe, dritte e rigide nella terra dura e gelata di quell’inverno, in una zolla rimasta scoperta dalla neve. Albert stava provando a spingerla, con tutte le sue forze, e la sirena aveva cominciato a suonare, prima acuta, poi, come fosse sempre più stanca, prendendo quel tono cupo e lugubre che tutti, ormai, conoscevano bene. La mucca, allora, si era finalmente mossa, entrando velocemente nella stalla, come se avesse percepito il pericolo. Capitava sempre più spesso, infatti, che l’allarme antiaereo del paese suonasse. Il sindaco aveva sistemato un altoparlante nel bel mezzo della piazzetta, dove c’era la chiesa, perché tutti sentissero meglio. Per la verità, però, non è che l’apparecchio funzionasse sempre bene. Così, sovente, era il prete che suonava le campane per avvisare che stavano arrivando. Solo che il prete non aveva dispositivi di avvistamento antiaereo e faceva suonare le campane della torre “a orecchio”. Dunque, quando suonavano le campane fuori dall’orario della Messa, non restava altro che farsi il segno di croce, correndo a casa il più velocemente possibile, perché significava che gli aerei erano davvero molto vicini, tanto vicini che in qualche modo il loro rombo era stato udito persino dal vecchio prete che aveva avuto il tempo di avvisare Dietrich, il sagrestano, perché si alzasse da tavola con il suo passo pesante – per qualche ragione, Dietrich era sempre a tavola – e si desse da fare con le corde di quelle campane.
“Lascia stare quella vacca”, gli aveva detto suo padre, correndo fuori di casa. “Prendi tua sorella e andate alla ferrovia”.
“Andare alla ferrovia”, nel linguaggio concitato degli adulti del paese, significava in realtà “andare oltre la ferrovia”, almeno due chilometri più in là, in piena campagna, dove c’era una vecchia casa, isolata da tutto il resto. Non avrebbero sprecato bombe per colpire quel mezzo rudere. Così, la casa era diventata il luogo in cui gli abitanti del paese mandavano i bambini, finché erano ancora in tempo, quando la sirena dell’allarme lasciava loro la possibilità di correre via. I bambini piccoli, però, no. Di solito, loro restavano in paese, con gli adulti. Invece, quella mattina ne avevano mandati via in tanti, di piccoli. 

Ora che il giorno è trascorso, che i boati in lontananza sono finiti e che è arrivata la notte, ora che, diversamente dal solito, nessuno è venuto a riprenderli per riportarli alle loro case, ecco, anche i piccoli sono rimasti lì con loro, al buio, nascosti da qualche parte. Se Albert avesse la voglia di alzarsi dal cantuccio che condivide con sua sorella Marlene e andare a controllare, ne conterebbe almeno dieci, o forse di più, di piccoli. Se li immagina tutti con gli occhi sbarrati, mentre cercano di pensare a qualcosa in tutto quel buio, a qualcosa che non faccia troppa paura.
Tic-tic-tic.
“Sarebbe meglio andare a controllare cosa succede”, dice Maria.
“Io non ci vado, là fuori”, commenta Hans.
“Non c’erano dubbi”, risponde malamente Albert. “Vado io”, aggiunge, tirandosi faticosamente in piedi. Sente tirargli i tendini delle gambe, rimaste troppo tempo ferme nella stessa posizione. Marlene gli afferra un braccio.
“Tranquilla… Vado solo a dare un’occhiata”, le dice. Lei non risponde. 
La luce si accende in quel preciso momento. È una luce fioca, tremolante, come quella di una candela esposta al vento. Infatti sembra proprio esserci una candela, appoggiata lì fuori, sul davanzale della finestra della vecchia casa.
“Sono venuti a prenderci”, annuncia Albert.
“No, aspetta”, lo ferma Maria. “E se non fossero loro?”
“E chi altro dovrebbe essere, scusa?”
“Gli altri”.
“Gli altri, chi?”
“Quelli che ci tirano le bombe, gli alleati”.
“Già, esatto”, interviene Hans. “E se fo f fossero loro? Accidenti a me, che balbetto. Comunque, chi può dirlo?”
Adesso la luce fioca della candela illumina la stanza a sufficienza. Albert può guardare in faccia Maria e Hans.
“Così, secondo voi sarebbero gli americani?”
“Chi può dirlo?”, ripete Hans.
chipuòdirlochipuòdirlo”, gli fa il verso Albert. “Io, posso dirlo”.
“Non lo sai, nemmeno tu”, risponde Maria.
“Invece lo so”.
“Ah sì? E come fai?”, lo sfida Hans.
“Non è che solo perché sei il più grande, sai tutto”, dice Maria.
“Allora, ragionate con la vostra testa, se ne siete capaci… Secondo voi, gli alleati, dopo aver raso al suolo tutto il paese, non avrebbero altro da fare che aggirarsi per campagne deserte al lume di candela?”
“In effetti…”, commenta Maria.
“Comunque, non possiamo neanche esucludere…”
“Hans, si dice escludere, non esucludere, per favore…”.
Nel frattempo, i bambini, quelli piccoli, si sono radunati sotto la finestra, dove la luce della candela è più forte.
“A… maletti”, dice uno di loro.
“Amaletti?”, lo guarda Albert.
“Amaletti”, dice convinto il bambino piccolo. Indica la finestra. Albert e Maria osservano meglio nella direzione in cui il bambino sta puntando il suo dito grassoccio. Hans si china alla loro altezza. Il piccolo ha ragione. Sul davanzale della finestra ci sono degli animaletti. Sono animaletti di terracotta, ma non si vede la mano che li tiene e che li sta facendo muovere. Ci sono un uccellino e poi quella che sembra una gallina. Ed ecco là in fondo, ecco una mucca, anzi due mucche, e un asinello e pecore, tante pecore, almeno quindici pecore.
“Ma che succede?”, fa in tempo a mormorare Albert.
“Il presepe”, esclama Maria.
I bambini piccoli ridono. Le pecore di terracotta sono buffe, capitombolano una addosso all’altra. L’uccellino vola sopra la testa dell’asinello, che cerca di acchiapparlo drizzandosi sulle zampe posteriori.
“Tra due giorni è Natale”, aggiunge Maria. Infatti, gli animaletti di terracotta, come richiamati all’ordine da quella stessa affermazione, si sistemano tutti in direzione della luce della candela, che adesso è più forte e sembra anche essere meno incerta rispetto a prima. E improvvisamente il presepe appare. Entrano in scena una capanna, con Gesù, Maria e Giuseppe e tutti gli altri. Ci sono anche due pastorelli, che infatti si preoccupano subito di radunare tutte le pecorelle. E stanno lì fuori, riscaldati e illuminati dalla fiamma della candela e Albert, Albert adesso non sa più cosa pensare. Guarda dov’è Hans. Lo vede seduto dietro al gruppo di bambini. Va da lui e gli dà la mano, lo aiuta a rialzarsi e si mette al suo fianco, sempre guardando la finestra.
“Sembra il cimena”, dice Hans. Albert gli sorride.
“Esatto, Hans… Sembra il… cimena, esatto”, risponde.
“È bellissimo”, dice Maria.
“Ohhhh”, dicono in coro i bambini, quando dal tetto della capanna del presepe si alza in volo un piccolo angelo e l’angelo li saluta con la mano e poi qualcuno srotola un pezzettino di carta e tutti si avvicinano alla finestra e sul pezzettino di carta c’è una scritta. Purtroppo, la gran parte di loro non sa leggere. Aspettano Albert. O Maria. O qualcun altro che sappia cosa c’è scritto.
Für…chte dich nicht, lass uns nach Hause ge…hen”, sillaba Hans.
“Torniamo a casa?”, dice Albert.
Sul davanzale, gli animaletti sono spariti. Anche il presepe è stato sistemato in un angolo. La luce della candela illumina il viso sorridente di quell’italiano che lavora alla fattoria degli Schwarzkopf.
“Non lavora… È un soldato prigioniero”, spiega subito Albert. “L’hanno portato qui i tedeschi”. “Mio padre dice che non capisce perché i tedeschi non se li tengono loro, i prigionieri”, dice Hans.
“Perché i nostri sono quasi tutti al fronte. E la terra, poi, chi la lavora?”, risponde Albert.
“È colpa della guerra”, dice Maria.
“Che facciamo?”, chiede Hans.
“Io l’ho visto molte volte costruire delle statuine di terracotta e far giocare i bambini che ci sono dagli Schwarzkopf. Credo che si chiami Alci… Alci e qualcosa”, spiega Maria.
Nel frattempo, senza che loro tre se ne fossero accorti, la gran parte dei bambini piccoli è già uscita là fuori. Stanno abbracciando il soldato italiano. Tra loro c’è anche Marlene. Albert apre la finestra.
“Perché hanno mandato te?”, chiede.
“Non lo so”, risponde il ragazzo, in un tedesco incerto. “Però ci sono io”, aggiunge tendendogli la mano attraverso la finestra aperta.
“Cos’è successo in paese?”, chiede Maria. L’italiano abbassa la testa. “Ni… Niente”, dice. “Solo… solo molta paura. Nessuno vuole uscire dalle case. Ma voi eravate qui. Non potevate restare ancora a lungo. Così sono venuto a prendevi. E ho portato degli… degli amici”. Indica gli animaletti di terracotta.
“Come facevi a sapere dove eravamo nascosti?”, interviene Albert.
“Me l’hanno spiegato”.
“Ma è un posto segreto!”, protesta Hans.
“Lo so. Ma ho seguito la ferrovia, poi l’ho attraversata e sono arrivato qui. Non potevo sbagliare”.
“Avrebbero potuto colpirti”, dice Albert.
“Lo so”.
“E quindi? Non t’importa?”
“Sì, che mi importa. Ma qualcuno doveva pur venire a prendervi. Era meglio se avessero sparato a me o a qualcuno dei vostri genitori?”
“A te”, risponde convinto Hans.
“Ecco, esatto”, gli sorride il soldato italiano. “E, adesso, se volete, possiamo andare”.
Albert guarda gli altri due ragazzi. 
“Io vado con lui”, comunica dopo qualche secondo.
“Ma… Ma possiamo fidarci?”, mormora Hans, andandogli comunque dietro e uscendo dalla casa.

Dobbiamo fidarci. È solo così che le guerre finiscono”, pensa tra sé e sé Maria, chiudendo la porta della stanza. “Me lo diceva sempre, la mia mamma”.

** Tra il 1943 e il 1945 migliaia di soldati italiani furono fatti prigionieri dai nazisti e deportati nei campi di concentramento o utilizzati come forza lavoro nel Reich. Mio nonno Alcide era uno di loro. Questa storia è ispirata a fatti realmente accaduti.